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Genova si vede solo dal mare - Gomorra n.8 / marzo 2005
       
 
 

GENOVA SI VEDE SOLO DAL MARE

“Chi guarda Genova” è una canzone scritta nel 1984 da Ivano Fossati, un cantautore ed un genovese “senza fissa dimora” per eccellenza che ha tra i suoi luoghi poetici prediletti  quello del viaggio immaginario, inteso come unica libertà possibile.
In essa la città natale è colta nel suo negarsi allo sguardo, nel suo esistere come immagine unitaria solo nel desiderio di chi parte o chi torna, e vi troviamo la figura dell’attesa per una partenza liberatrice:

Chi guarda Genova sappia che Genova
si vede solo dal mare
quindi non stia lì ad aspettare
di vedere qualcosa di meglio, qualcosa di più.
di quei gerani che la gioventù
fa ancora crescere nelle strade.

E giù alberghi della posta
e ritorni senza eleganza e senza sosta
restiamo volentieri ad aspettare
che la nostra casa stessa riprenda il mare
e non dovremmo sbagliare
non ci dovremmo sbagliare.

dove Genova è già un limite fisico:

il tuo divano è troppo stretto
perché io mi faccia delle illusioni.

E’ una visione molto lucida di una città naturalmente “avara” che, come una quinta sul teatro del mondo, si confronta costantemente con una linea d’orizzonte e quindi con la mitizzazione dell’oltre e la negativizzazione del “qui ed ora”, e che in qualche modo non si può descrivere in maniera univoca ma si può attraversare, percorrere, risalire. Vi si può sostare per poi ripartire.
Intorno a questa realtà si è consolidato il luogo comune di una chiusura che favorisce il momento creativo. In questo senso si potrebbe pensare ad una città vista come donna-madre che contiene e “ripristina la dimensione ecologica della fantasia” (Begliomini 1995). Essa ci appare come un abbraccio aperto sul mare, indimenticabile nella raffigurazione della “Siciliana” di Dino Campana:

O Siciliana proterva opulente matrona
A le finestre ventose del vico marinaro
Nel seno della città percossa di suoni di navi e di carri
Classica mediterranea femina dei porti:
O Siciliana, ai capezzoli
L’ombra rinchiusa tu eri
La piovra delle notti mediterranee
[…]
tu
La finestra avevi spenta:
Nuda mistica in alto cava
Infinitamente occhiuta devastazione era la notte tirrena.

Nel gioco estremo della poesia la città giunge ad essere abisso notturno, varco verso l’impossibile, come in Camillo Sbarbaro:

Quando traverso la città la notte
Io vivo la mia vita più profonda.
[…]
E so l’ostilità di certe vie
tozze,
la paura di certe piazze vuote…
E forse ignaro m’incammino verso
-oh mia liberazione!-la Follia.

In ogni caso, nel tracciare quella che potrebbe essere una mappa mentale urbana, rimane fondamentale questa condizione del movimento “da”, “verso” e “attraverso”. In quest’ottica è molto utile un analisi fatta attraverso gli strumenti della narrazione.
Il concetto di vettorialità è implicito alla scrittura; notava Roland Barthes che “la scrittura si dipana come un filo più o meno largo, più o meno compatto”.   Questo “nastro”, che esprime lo statuto fondamentalmente narrativo della scrittura, è lo stesso in cui si condensa la forma di Genova. 
Ancora:” la scrittura non è altro che una “fissurazione […], ha bisogno del discontinuo”.
Si può pensare a Genova come ad un testo fatto di sovrapposizioni e coesistenze, la cui linea guida è il movimento dell’occhio-soggetto in questo scenario: una sorta di “città nella città”, città-anfiteatro o meglio città-cinema.
Wim Wenders affermava che:”La città si definisce per contrasti, vuole scoppiare. […] Ogni tipo di linguaggio […] diventa significativo proprio nelle fessure degli argini, dove qualcosa sfugge. […] Descrivere le città è un’arte molto rara perché esse si sottraggono alla descrizione.”

L’identità di ogni microcosmo è data dal suo rapportarsi con gli altri elementi del sistema.  La linea di costa, segno del mare, governa poi il tracciato delle infrastrutture e quindi le nostre mappe percettive.
I tunnels, le gallerie pedonali, i ponti: Genova fa i conti con lo spazio e le necessità reinventando continuamente le proprie storie.
Gli spostamenti, o meglio gli attraversamenti lungo la direttrice principale o piuttosto seguendo le verticali ascensionali (forzati dall’orografia e dalle modalità della crescita urbana) avvengono secondo un succedersi di scenari diversi in cui è proprio il senso del percorrere (inteso nell’accezione di montaggio di sequenze differenti nel tempo) che determina quella dimensione narrativa di Genova che coincide con la sua forma identitaria. Si tratta di una compresenza di momenti differenti, ma anche di differenti “stati dell’anima” che ci fornisce la “cifra urbana” e necessariamente si lega all’immaginario che prospetta scenari futuri o ridisegna nella mente del viaggiatore la topografia della città attraverso una mappa mentale.
Esiste, per Genova, una sorta di problema “ontologico”: potremmo dire che la città è conoscibile solo da parte di un osservatore in movimento, ma non può essere ritratta in modo univoco. A questo proposito ci soccorrono le parole del poeta Andrè Frenaud che nel suo poemetto “Le silence de Gênes” scriveva: “La città prende corpo nel gesto stesso della perlustrazione, ma la caratterizzazione realistica è come sospesa, sottratta. […] la richiesta fatta al mondo esterno diventa assillo vuoto […]  tutto s’ordina e si sommuove nell’accogliente spazio, tutto si ravviva e si trattiene, si disperde”.
E’ questa una caratteristica che accomuna Genova ad altre realtà mediterranee come Marsiglia o Trieste.
Jean Claude Izzo, lo scrittore noir francese recentemente scomparso, sosteneva, attraverso il protagonista delle sue storie, che “[la bellezza] di Marsiglia non si fotografa. Si condivide. Qui bisogna schierarsi. Appassionarsi. Essere per, essere contro. Essere, violentemente. Solo allora ciò che c’è da vedere si lascia vedere.” Così egli aveva scoperto la sua “chiave” letteraria per rendere visibile l’invisibile.  Nei suoi romanzi spesso i nomi hanno una funzione evocatrice nel senso in cui, con Proust, possiamo dire che essi “accumulano sogni” e “magnetizzano desideri” : ”[…] lo fece scendere davanti a Monte des Accoules, un centinaio e più di scalini da salire ed un dedalo di strade fino a rue des Pistoles”.
Lo scrittore che interagisce con lo spazio urbano si confronta necessariamente con delle realtà mitiche e quindi lavora nel registro dell’evocazione, spesso con un approccio che nella nostra letteratura del ‘900 risente di influenze simboliste o surrealiste. Come in Montale nella rievocazione di corso Dogali e del mendicante con l’organetto (detto il “Carubba”):

Se frugo addietro fino a Corso Dogali
non vedo che il Carubba con l’organino
a manovella
E il cieco che vendeva il bollettino
del lotto. Gesti e strida erano pari.
[…]
La perfezione: quella che se dico
Carubba è il cielo che non ho mai toccato.

Anche in GiorgioCaproni l’ascensore di Castelletto diventa metafisica ascensione in un aldilà cui fa da sfondo la città:

Quando mi sarò deciso
D’andarci, in paradiso
Ci andrò con l’ascensore
Di Castelletto, nelle ore
Notturne, rubando un poco
Di tempo al mio riposo.
[…]
ma là sentirò alitare
la luce nera del mare
[…]

Il mare è anche l’elemento fondativo che costituisce una presenza implicita anche dove non si vede:

Come un tiro aggiustato mi sommuove
ogni opera, ogni grido ed anche lo spiro
salino che straripa
dai moli e fa l’oscura primavera
di Sottoripa.

 ( E. Montale, “Le Occasioni”)

Esso ha in sé i motivi del viaggio, della partenza/arrivo, del limite/orizzonte.
Ci si muove in ogni senso sempre relativamente alla linea del mare.
Dall’entroterra oscuro si arriva attraverso gallerie o varcando il crinale dei monti fortificati, od ancora seguendo il torrente e raggiungendo finalmente la Foce.

Notiamo come in tutto questo gli apparati del trasporto meccanico come la sopraelevata, le funicolari, gli ascensori o le navi  giocano un ruolo fondamentale di supporto al dispositivo della percezione. Non a caso una tra le più belle invenzioni della letteratura visionaria italiana del ‘900 è la “Passeggiata in tram in America e ritorno” di Dino Campana in cui l’autore immagina di compiere un viaggio di andata e ritorno oltreoceano da Genova trasportato da un futuristico mezzo sospeso che da tram si trasforma in nave: "Aspro preludio di sinfonia sorda, tremante violino a corda elettrizzata, tram che corre in una linea nel cielo ferreo di fili curvi mentre la mole bianca della città torreggia come un sogno, moltiplicato miraggio di enormi palazzi regali e barbari, i diademi elettrici spenti. […] Gli alti cubi della città si sparpagliano tutti pel golfo in dadi infiniti di luce striati d’azzurro…[…]…ma mi parve che la città scomparisse mentre che il mare rabbrividiva nella sua fuga veloce. […] Riodo il preludio scordato delle rozze corde sotto l’arco di violino del tram domenicale. I piccoli dadi bianchi sorridono sulla costa tutti in cerchio come una dentiera enorme tra il fetido odore di catrame e di carbone misto al nauseante odor d’infinito.”
Il paesaggio urbano della partenza ci si presenta trasfigurato al ritorno, e la costruzione narrativa che cerca di riprodurre la velocità del viaggio è decisamente cinematografica.
Chi visita Genova è necessariamente un “viaggiatore voyeur” che non si trova in un centro di convergenza panottico ma fruisce invece di una visione dromoscopica.
Questa è la condizione tipica di chi arriva in città dall’autostrada e si immette nella sopraelevata.
Nella definizione che ci dà Paul Virilio di tale circostanza il percepito viene a dissolversi nell’anticipazione dei paesaggi a venire. Le sue parole sono molto efficaci: ”in questa corsa-inseguimento il paese non è attraversato, ma, per meglio dire, perforato. La rientranza del parabrezza è una sorta di porta-finestra attraverso la quale i viaggiatori-voyeurs si inabissano nell’attrazione dell’arrivo. […] [Il guidatore si trova] in una situazione opposta a quella del frequentatore di sale cinematografiche: è lui ad essere proiettato: attore e spettatore del dramma della proiezione, recita nell’attimo del tragitto la sua stessa fine”.
Se tentassimo di trovare, a proposito di Genova, dei luoghi letterari ricorrenti nell’immaginario del romanzo moderno e contemporaneo, tra gli altri emergerebbe senz’altro quello di una città in qualche modo ”eccessiva”, dove domina il motivo anche pittorico del contrasto e della differenza: “Ci sono giorni in cui la bellezza gelosa di questa città sembra svelarsi: nelle giornate terse, per esempio, di vento, quando una brezza che precede il libeccio spazza le strade schioccando come una vela tesa. Allora le case e i campanili acquistano un nitore troppo reale, dai contorni troppo netti, come una fotografia contrastata, la luce e l’ombra si scontrano con prepotenza, senza coniugarsi, disegnando scacchiere nere e bianche di chiazze d’ombra e di barbagli, di vicoli e di piazzette”. (Antonio Tabucchi da “Il filo dell’orizzonte”, 1986)
Oppure  Albert Camus ne “La morte felice” del 1937 sottolineava un rumoreggiare più umano: “Chiudendo gli occhi stringeva la pietra calda su cui stava seduto e poi li riapriva su questa città in cui l’eccesso di vita urlava in un esaltante cattivo gusto”.
Il carattere promiscuo e polifonico non poteva sfuggire ad un pittore-musicista come Paul Klee, che nel suo “Diario Italiano (ottobre 1901-maggio 1902)” annotava: “Per la prima volta il mare di notte, visto da un’altura. Il porto imponente, i giganteschi piroscafi, gli emigranti ed i lavoratori del porto. La grande città meridionale. […] Clima insolito. Piroscafi da Liverpool, Marsiglia, Brema, la Spagna, la Grecia, l’America. Rispetto per la grandezza del globo terrestre. Centinaia di vapori accanto a innumerevoli vaporetti, velieri, rimorchiatori. E gli uomini poi? Le figure più strane, col fez.  Qui, sugli argini, emigranti, italiani del Sud, accoccolati al sole (come lumache), gesticolare da scimmie, madri con lattanti al petto, i bambini più grandicelli che giocano e si bisticciano. […] Sugli argini case e magazzini. Un mondo a sé. Noi semplici oziosi. Eppure fatichiamo, almeno con le gambe. […] Attorno bambini che ballano. Il teatro della realtà. Ho portato molta malinconia oltre il S.Gottardo”.

Altra immagine è quella della “città mutante” che trova ne “i Trucioli” di Sbarbaro una straordinaria, immaginifica rappresentazione letteraria ispirata da un antico affresco nelle scale della Prefettura: “E mi figurai S.Lorenzo in mezzo ad una Genova fosca e superba ai lati; dalle strade anguste; abbarbicata a poca sponda che due riviere turbolente le scavavano ai lati; protesa alle vie del mare, la Genova di cui rimane, vestigio, qualche lapide incisa, qualche portale d’ardesia intagliata. Attraverso i secoli muta dunque faccia la città come in un minuto il mare colore. Ad essere uno squadrato masso in vetta ad una antichissima torre – occhio minerale per cui gli anni sono istanti per noi – si vedrebbe una città vivere: assaggiare con incerti tentacoli intorno; attaccare coi moli il mare che l’assalta: allungare bracci di là dei fiumi; inerpicarsi ai colli o spianarli col peso; invadere, macchia d’olio; in qualche parte ammalarsi e perire; donde poi buttare più vigorosa, pollone da potatura; crescere e respirare multiforme ed enorme…”
D’altra parte Paul Valery affermava che “Genova si fa e si rifà, è amante del fare e del costruire” .

E’ interessante notare che anche un uomo di cinema come Wenders, intervistato da Hans Kollhoff a proposito di Berlino, sosteneva di amarne i vuoti perché le città hanno una “funzione mediatica tra futuro e presente. Creano una relazione temporale per i loro abitanti, e li collocano in qualche modo in una terra di nessuno tra passato e futuro”.
E Genova si pone come uno scenario in costante rinnovamento.  Si potrebbe definire come un poli-testo che darwinianamente si adatta a situazioni sempre diverse, e che ha una diretta relazione con la mappatura percettiva che nel tempo ha risentito anche dei diversi atteggiamenti culturali da parte delle componenti sociali coinvolte.
Si può analizzare la parabola che nel tempo è stata disegnata dal variare delle modalità di fruizione del paesaggio urbano
Nell’era premoderna l’assetto di Genova era essenzialmente “difensivo” e quindi prevedeva una chiusura sia nei confronti del mare che dell’entroterra: i vicoli sono un dedalo impenetrabile interrotto da piccole piazzette, scandito dai segni di torri ed edicole votive.
Scrive Maggiani: “Il centro di Genova è pieno di piazze insoddisfacenti, luoghi a prima vista privi di una loro logica o di una qualsiasi attrattiva; brandelli di vuoto buttati lì a caso all’incrocio di qualche carrugio.”
Solo in seguito, con le grandi lottizzazioni di via Garibaldi e via Balbi ha preso campo la necessità di allestire un paesaggio privato che fosse anche di rappresentanza, tramite straordinarie corti verdeggianti adornate da splendidi ninfei. Vi era però ancora la negazione del mare, ritenuto pertinente alla villa in riviera ma non alla residenza cittadina.
Nell’ottocento, con la straordinaria promenade di Corso Firenze e Corso Dogali la borghesia si riserva il privilegio della vista sul mare e sul porto, cui si guarda con il distacco richiesto da una contemplazione romantica del paesaggio. Il porto era ed è stato fino a poco tempo fa considerato il sacro territorio del “lavoro”.
Poi con le prospettive metafisiche dell’architettura di regime una nuova città si sovrappone prepotentemente alla precedente con l’introduzione dei fronti curvi che sono il segno dell’automobile e delle geometrie metafisiche. E’ significativo a questo proposito notare che questi sfondi sono spesso utilizzati da chi fa spot pubblicitari, probabilmente proprio per il loro carattere astratto ed universale, poco contaminato. I media re-inventano una nuova Genova per i propri fini, così come è avvenuto nel film “Agata e la Tempesta” di Soldini, a costituire una ulteriore sedimentazione linguistica. Il Movimento Moderno si confronta con lo spazio scenico urbano reinterpretando la curva isometrica del territorio come nel Biscione di Daneri o aprendo sinuose vetrate continue a dominare la vista sul mare come nella Villa Ollandini di Morozzo della Rocca.
La forma si svincola dall’ideologia e si riappropria utopicamente del paesaggio, diventa “macchina per guardare”.
La periferia sente più che in altre città la conformazione verticale del territorio, gode di straordinarie situazioni paesaggistiche seppure in una condizione di totale oblio e degrado fisico-sociale.  Il parametro del progetto è quello dell’automobile, unico a confrontarsi realmente con la natura del luogo dando origine a gomitoli di strade e pendenze al limite del possibile.
Genova si può raccontare come un universo consolidato da una rete infrastrutturale che ha le sue sospensioni e le sue dilatazioni.
Tra queste gli spazi commerciali come Fiumara ed Ipercoop che diventano i centri artificiali e ritrovati delle zone industriali dismesse.
Nel 1992, con l’apertura del fronte su Caricamento e la realizzazione del progetto di Piano e collaboratori si è dato il via ad un processo rivoluzionario anche dal punto di vista delle modalità di percezione che continua tutt’oggi con la ristrutturazione della Darsena.
Si può dire che Genova non solo “guarda” ma “è guardata”, diventa una sorta di scenografia emblematica negli allestimenti teatrali fatti dal Teatro della Tosse sulla Diga Foranea.
E’ il segno della conquista popolare del fronte mare, una rottura degli schemi tradizionali nell’ordinamento percettivo del territorio.
Ma se la città vive questa ottimistica fase di espansione (anche mediatica) iniziata con le Colombiadi del ’92 ed alimentata più recentemente dal flusso di denaro arrivato nelle casse dell’Amministrazione con gli eventi del G8 e del 2004, non riesce tuttavia a cancellare le proprie spesso traumatiche discontinuità.
La città può essere vissuta come un limite, una continua frontiera tra fratture e ferite.
Inevitabilmente penso alla vicenda di Via Madre di Dio, al mutamento radicale che ha costituito ed al segno forte che ha lasciato. Via del Colle (la strada che segue il percorso delle antiche mura) da una parte e via Fieschi dall’altra costituiscono due linee di confine non solo fisiche ma umane. C’è una forma di sopravvivenza della gente di fronte ai cambiamenti del tessuto urbano ed ai vuoti che questi possono determinare.
Chi è sradicato emigra in periferia, verso il CEP o Begato (il parallelo genovese delle citè marsigliesi), e si porta dietro il proprio bagaglio socio-culturale destinato ad esistere in un nuovo contesto, necessariamente estraneo.
Ci sono ancora delle sofferenze vicine a noi che a Genova viviamo da tempo, impossibili da dimenticare.  E’ facile ritrovarle ancora, semplicemente ascoltando una canzone. Viene dal lontano 1983, anno in cui uscì l’album di Ivano Fossati “Città di frontiera”:

[...]
davanti alla mia casa ci hanno fatto
un palazzo di cemento così alto
che il vento in strada
non lo sentiamo più

non lo sentiamo più
non lo sentiamo più
[...]

l'anno prossimo sarò qui
davanti alla mia casa
sotto quel palazzo
seduto su quella croce
seduto su quell'amore
aspettando quell'amore.

 

Luca Mori